Realtà di luce nello spazio immateriale (F. Briguglio)

(In Sandro Sanna – Catalogo mostra a cura di F. Briguglio, Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea, Università degli Studi La Sapienza, Roma 1997-98).

È nell’ambito della pura astrazione, al di fuori delle più immediate contingenze, che la ricerca linguistica di Sandro Sanna, fondata essenzialmente sul valore formante della luce, compie i suoi attraversamenti espressivi.

Un percorso in cui sono rintracciabili riferimenti più o meno espliciti che vanno da Cézanne al cubismo, dalla metafisica al surrealismo, fino ad arrivare alle forme più intransigenti e radicali di indagini pittoriche esercitate, talvolta anche in termini oggettuali, nella più assoluta autonomia rispetto alla figurazione.

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Sanna o della Maieutica (M. Calvesi)

(In Sandro Sanna “Metallica” – catalogo Cam Editrice, Roma 2003)

Sedotto da alcuni titoli delle opere di Sanna, gli chiedo quale ne sia l’origine e il significato: Lo specchio dei pianeti a uno a uno,

o L’inno notturno della roccia, o perché Rock in inglese.

Non si mostra reticente davanti a queste domande “indiscrete”,intorno a cui altri artisti imbastirebbero acrobazie di parole evasive.

La fonte dei titoli è infatti nella poesia e la fede, quando è autentica, chiede di essere esposta: Sanna infatti crede nella poesia come nel punto di osservazione del mondo, più sgombro di nubi, e sismografo il più fedele del suo mistero.

The Rock è il titolo della sezione di un libro di Wallace Stevens,

che contiene proprio anche i versi citati, in una poesia che

comincia con questa inquietante terzina:

“La roccia è il grigio particolare di una vita d’uomo

La pietra da cui sorge, sempre su,

Gradino ai più tetri fondi cui discende.”

E continua: “La roccia è abitazione del tutto, /Sua forza e

misura…”

C’è qui un poco, in effetti, la notte e il bisogno di luce dei

dipinti di Sanna, della serie appunto dei geodi e delle pietre, serie

culminata in quel motivo esplicito della Cosmogonia, come il

pittore ha chiamato (ripetendolo poi in versione ridotta) un suo immenso dipinto: composto di parti aggregate proprio come strati

di rocce, nella pericolante sospensione di un moto rotatorio che

evoca quel principio, di rotazione appunto, su cui si basa

l’equilibrio dell’universo. Esso è il teatro del nostro stupore,

l’immagine senza approdo certo del nostro esserci e divenire, lo

svolgersi silenzioso di una vicenda degli spazi da cui possiamo

anche assentarci, nel trastullo delle nostre occupazioni, ma che

con trasalimenti improvvisi ci richiama sempre allo stesso punto

di domanda; e ci inchioda alla vanità del nostro procedere. Quello stesso punto di domanda è continuamente latente, del resto, in ogni incertezza

delle nostre percezioni, specie quando esse si incontrano, magari in una notte stellata, con la “smisurata” vastità del cielo. Vengono allora meno, proprio, le nostre “misure”, i nostri metri e solidi punti di riferimento.

L’opera di Sanna ci richiama a questa conturbante incertezza, di misure artatamente ma simbolicamente contraffatte, con l’ingresso di piani inclinati che alludono a gremite ma inesistenti profondità, con i bagliori di luce che rompono violentemente la notte ma non disperdono l’enigma.

La nuova serie di opere (Metallica è il titolo di questa mostra) rimuove le più rudi spigolosità della roccia, per articolare in un gioco verticalistico di sporgenze e rientranze superfici dove spiove una luce meno dura. La   nuova delicatezza, i profili longilinei ed eleganti non tacitano però l’allarme delle forme, percettivamente subdole non solo, ma non più coese in un ammasso, bensì ciascuna staccata nel proprio precario equilibrio, in una pendenza che potrebbe trasferirsi in pensieri di angosciose irresolutezze.

Gli incontri dei piani diventano in qualche caso, malgrado la metallica tensione delle superfici, più simili a inaffidabili castelli di carte che minacciano rovina, mentre il raffinato motivo dei riflessi sfrangia gli spigoli in accenni di raffinata leggerezza ma al tempo stesso inghiotte il già sibillino assetto plastico delle forme in una liquida profondità ancor più ambigua, che accentua l’effetto di una sospensione sul vuoto e può tramutare la leggerezza in incombenza.

Che siano, i riflessi, realmente prodotti da lastre specchianti o simulati dal pennello, questo rientra nel gioco di scambi tra apparenza e realtà che Sanna conduce con la perizia di un maestro e la maieutica di un filosofo, che ci porti a scoprire le lacune dei nostri orizzonti.

 

Maurizio Calvesi

Sentiero delle lame d’oro (L. Canova)

(In Sandro Sanna “Metallica” – catalogo Cam Editrice, Roma 2003)

Le opere di Sandro Sanna incantano i loro spettatori con immagini dove il tema del riflesso e del rispecchiamento è portato al massimo delle sue possibilità illusionistiche, lavori dove la luce si trasforma nel medium implacabile di un inganno perpetrato ai danni del nostro sguardo.

Nella nuova serie di Metallica, Sanna ha così operato una totale scomposizione del dato visivo, proponendo una sorta di universo parallelo dove le coordinate spaziali appaiono come stravolte e alterate dall’architettura inafferrabile di nuovi modelli matematici che informano tutta la realizzazione dei dipinti.

Appare comunque evidente come le opere precedenti di Sanna (pur fondate sulle idee germinali di una tendenza all’illusionismo estremo) fossero comunque concepite su una struttura in parte ancora tradizionale, anche se costruita come una finestra aperta sulle forme di una realtà diversa e spiazzante.

Tuttavia, in questi lavori, Sanna si è spinto ancora più lontano, portando alle estreme conseguenze il suo lungo discorso pittorico e ricodificando la stessa costruzione dell’oggetto-quadro, in dipinti costruiti come installazioni dove l’ordine tradizionale appare spezzato e stravolto da una nuova formulazione, da una sintassi in cui la geometria sembra sottoposta ai codici ferrei di una misteriosa volontà poetica, ai canoni rigorosi di un’armonia sconosciuta.

I precedenti cicli di Sanna come Bisanzio, i Geodi, le Derive, lo Specchio dei Pianeti e il Vento di polline, sembrano essere stati così inglobati in una sintesi essenziale dove tutto appare mosso da una poetica nuova, da un senso insieme crudele e lirico della costruzione delle immagini, che sembrano nate seguendo l’armonia notturna di un canto barbaro e tenebroso, il ritmo di versi stesi per accompagnare il caos ordinato di una lontana cosmogonia.

Ma la volontà dell’artista non è solo quella di dare vita alle parvenze ineccepibili di un mondo alternativo, o di creare i fondamenti di nuove regole percettive: forse Sanna cerca di essere il timoniere che attraverso il buio conduce i suoi spettatori in edifici assurdi e magnifici, all’interno di lucenti palazzi eretti in territori pericolosi e irreali, in luoghi splendidi e governati da leggi impietose.

Le luci dell’artista appaiono così trasformate da una mutazione sfuggente, da una metamorfosi inafferrabile che sembra avere amplificato la loro essenza e arricchito la loro struttura di una nota cupa e allusiva, di una risonanza più grave che dilata il loro suono e la loro eco nella distesa oscura di mari notturni attraversati da bagliori e scintille.

Lo spettatore, come un viandante straniero in una terra lontana, si troverà così rinchiuso in corridoi corruschi e in sale splendenti, condannato a vagare in un labirinto concepito su trabocchetti prospettici, in un meandro crudele costruito per lo smarrimento del viaggiatore ignaro e dell’incauto osservatore, convinti con l’inganno ad attraversare quel confine ignoto e rischioso.

Un soffio gelido di premonizione, un respiro freddo di acciaio e di pietra, attraversano questi spazi primigeni e artificiosi, percorsi da una tentazione ad incantare con le suggestioni dello splendore visivo per poi sedurre con le armi gentili e affilatissime dell’illusione.

Sanna ha costruito così una raffinata e rigorosa installazione, concepita come il meccanismo perfetto di una trappola incombente, un bosco d’oro e di fuoco attraversato da un sentiero di lame affilate, un percorso tagliente e inesorabile con il quale lo spettatore è condotto verso il suo inevitabile destino di perdizione o di salvezza.

Sandro Sanna “Luce formante” (P. Ferri)

(In “Flash Art” –  1990)

Sandro Sanna è partecipe di una cultura di segno forte della rarefazione dell’immateriale nell’accezione della riacquisizione del senso e non della sua perdita ineluttabile, quella che agisce nel vuoto appiattito e siderale dell’universo telematico. In virtù di quella linea indicata da Deleuze che passa attraverso la piega e che al di là dei suoi limiti storici riunisce architetti, pittori, musicisti, poeti e filosofi, il barocco è assunto come modalità della visione basata sul valore catartico e fondante della luce, che secondo questo concetto proviene da uno spiraglio, da una esigua apertura nascosta e ripiegata come afferma Leibniz nella Profession de foi philosophie: “La luce scivola come attraverso una fenditura in mezzo alle tenebre.”

Una luce che custodisce il carattere problematico della conoscenza e della figura che si svela, elemento che in tutta la sua presenza mitica riflette l’ombra dell’esistenza umana, della sofferenza dello sguardo di fronte al reale. La labirintica molteplicità dell’opera si definisce come evento ripiegato su se stesso, con un fondo scurissimo e una piccola parte illuminata, che viaggia su una direttrice che fa propria la monumentalità della riflessione progettuale nell’arte, un pensiero che svela l’opera come spazio assoluto determinando la visione oltre il limite percettivo del contingente e luogo etico, dell’agire e qualificazione di se stesso. Un percorso dove viene sottolineata la necessità prioritaria dell’autonomia linguistica dell’arte, tramite cui è concesso entrare nei luoghi manifesti del transito del pensiero nell’ambito della rivelazione figurale.

La pittura di Sanna passa dall’occultamento di ogni visibile referenzialità a un cambiamento radicale di prospettiva, nel dispiego sontuoso di un racconto affidato al formarsi di un’immagine convocata in tutta la sua potenza visiva, secondo uno sguardo che vede nei ripiegamenti della materia e indaga nelle pieghe dell’anima.

Dallo spaesamento percettivo, come un movimento sottile di destrutturazione, il progressivo riassestarsi dell’immagine che apre a un interagire drammatico e fluido di fondali e sipari scenografici e barocchi, cavità morbide e accoglienti, nell’eccesso dei contrasti del tessuto visivo e luminoso, screziature infiammate e variegate dall’opacità pesante dei bianchi e neri come in una stoffa divisa e scomposta in movimenti curvilinei. Esponendosi paradossalmente al rischio del proprio annullamento, l’immagine pone in evidenza i materiali astratti che riverberano la luce, la costituiscono e la scrivono nella continuità dinamica dell’atto ontologico che vi è sotteso.

L’approdo a uno spazio conflittuale, dove alla rarefazione della luce corrisponde una dimensione buia, oscura e violenta dell’immagine, non è mai rigida contrapposizione del versante del buio a quello del luminoso, quanto percezione di un tempo a sua volta contenente uno spazio. Per questo fine l’artista mette in atto la vicenda della luce nello spazio simbolico della superficie perché si generi una dimensione visiva in grado di indicare l’assenza mentale e spirituale di ciascuna opera. Un’opera dove coesiste il rigore progettuale nella devianza a un codice d’inflessibilità e la presenza aurale della luce, i cui vettori poetici sostanziano la fondazione di uno spazio che ha il valore di messaggio poetico delle figure che seguono.

 

 

                                                                       Patrizia Ferri

                                                                                              Flash Art

Bisanzio (L. Meneghelli)

(In Sandro Sanna “Bisanzio” – catalogo mostra personale, Galleria Giulia, Roma 1994).

Oltre il rigorismo teorico: oltre l’ostentazione tautologica dei dati elementari del dipingere (colore, segno, superficie): oltre il fare pittura per studiare la pittura. Eppure ancora minime eccitazioni di sguardo, sintomi albali d’immagine, “understatement” espressivo. Superficie e profondità tenute strette da “chiodi d’oro”: ma senza ammiccamenti mondani (di cristalli ctoni o di ritmi siderei), semplicemente localizzazione di una datità spazi aIe, sporgenze (o rientranze?) che appuntano l’andirivieni di una materia notturna, che si ritrae e si espande in termini infiniti di diastole e di sistole (1).

Punti, ma con confini, che sarebbero pronuncia di misura, di orizzonte, di spazio spezzato. Il quadro di Sanna invece si pretende orizzonte “tout court”: aperto, senza esaurimenti: anche se non da completare come una mappa celeste (alla maniera di Luciano Fabro: un io che calcola le distanze proporzionali tra le stelle, cercando il proprio habitat nell’universo: davanti, dietro, destra, sinistra), ma orizzonte da inseguire nel suo ambiguo irradiarsi. Ambiguo, non solo perché sottomesso all’ordine della dinamica (di una oscurità fitta, diffusa ubiqua), ma anche perché lavorato da soffi (vele, voli) di fisiologica chiarità che osano spessore, corpo, volume: e dunque proposta di racconto, accenno di formalità.

Ma il problema non è di vero (di referenza), quanto di negazione del vero: è questione di materie che colpiscono altre materie, sino ad estenuarsi, a velarsi a vicenda: o, se si vuole, questione di un loro incessante definirsi e ridefinirsi, di un loro interagire che fa della superficie uno spazio del divenire, un luogo della indeterminazione pura. Esso perciò vale non per ciò che offre (afferma), ma per ciò che lascia intravedere. Verbo di Merleau-Ponty: “ogni pittura apre un campo di visibilità che la oltrepassa” (2). E anche in Sanna ogni superficie conduce oltre se stessa. È un fatto fisico che si propone come metafisico. È una presenza che insinua ipotesi di assenza. Tutto è lì e contemporaneamente altrove. Arte di quel che passa e di quel che è passato. Processo, catena avvertita di atti, che lascia tracce e copertura di tracce. Spazio plurimo (stratificato) che ha un suo tempo interno, un suo incessante ritorno (avvolgimento) su se stesso, ma senza il conseguimento· di una autentica fine (di una stasi reale). Spazio della speranza differita, pari a quella di Cézanne, che vede infinitamente sfuggirgli il motivo e infinitamente ci torna sopra, anche se alla fine rende tangibile solo la sua perdita, l’acquoreità di Le Cabanon. Come dire che, qui, la voglia di insistere, diradicarsi (passando, affollando, cancellando) non porta ad arresti visivi (ai terribili limiti che adescano e folgorano l’occhio), ma a una sorta di vastità, di illimitatezza, di atopìa. Perché i segni non moltiplicano mai i significati (le denotazioni): casomai moltiplicano proprio i segni e allontanano i significati. E se in molti lavori passati di Sanna la superficie sembrava quasi mettere la propria anima a nudo, facendosi attraversare da fendenti di luce, svelando la notte stessa del fare, ora i centri luminosi si sono fatti minimi, tra l’idea di borchia (di “puctum” esteriore) e l’idea di foro (di intimo pertugio). Se là i tasselli cromatici venivano come sradicati dal loro fondo e ondeggiavano in superficie simili ad iceberg alla deriva, qui le tessere dorate (musi ve) pongono in essere una paradossale situazione: da una parte sono battiti di continuo rigenero, elenco, oracolo, punti mobili (alla Castellani) che appartengono a se stessi e all’impeto che li inclina tutti, dall’altra sono sprofondi leggeri, spogli, rudimentali con un senso di pausa, di vuoto materiato. Sorta, quindi, di “dinamismo statico”, incredibile muoversi fermo, muoversi su di sé, riassumersi in nucleo di energia luminosa. “Elan vital” e “durée” bergsoniani, contratti in un unico segnale, che necessariamente turba, trema, incanta come lo possono fare le “sommarie” attestazioni di precipizio di Fontana. È pur vero che nell’ artista italo-argentino si tratta di un “gesto senza riparo, di zelo, illusione, destrezza, amore della vita nel vuoto che la stringe” (3): ma anche in Sanna si dà una sorte di attentato azzardato, per cogliere stupori attimali, tranelli “puntuali” che rendono precaria (e dunque viva, emozionata, “sragionante”) l’intera superficie immaginati va.

Del resto è sempre stato uno degli obiettivi di Sanna, quello di creare un quadro dell’irrequietezza, dell’instabilità percettiva: un quadro che assume una diversa configurazione a seconda del mutare dell’incidenza luminosa o dei punti di vista da cui è osservato. Ma se un tempo era il lavoro interno all’opera a espletare (quasi didatticamente) questo compito, attraverso una materia che si apriva dal profondo, o meglio che apri va il suo profondo, permettendo che la luce non solo si facesse largo, ma diventasse il largo (il varco) tra le cose, nelle ultime opere i minuti puntigli fanno soltanto “rabbrividire”, agitare epidermicamente il dipinto, ma non lo slogano, non lo destrutturarono. Eppure proprio queste tracce dall’ esiguo ingombro rendono illimite il campo, lo fanno senza fissa dimora: ma senza strappi, senza gesti giganti, senza segnali in immersione/emersione, semplicemente dichiarandosi per quello che sono: ori e fondi, luci, nient’ altro che luci, polveri di luce che bucano/resuscitano nel buio, nient’ altro che nel buio. Un costringersi, radunarsi, sommergersi e farsi germe (origine, Oriente) al vedere: incidenti infinitesimali per un massimo di alterazione percettiva.

Luigi Meneghelli

 

Cosmogonia 2001 (A. Monferini)

(In Sandro Sanna “Cosmogonia”– catalogo mostra personale, d’AC, Ciampino 2001).

Cosmogonia 2001, così è stata battezzata dall’autore l’imponente installazione che domina la mostra e che si accompagna ad un gruppo di lavori precedenti, ma a quest’opera imparentati da figure e forme in stretto rapporto di contiguità poetica e immaginativa. Una serie di disegni ripercorrono poi il processo di maturazione dell’opera nei suoi passaggi essenziali.

Poderosa struttura, si allunga in parete per oltre cinque metri e si sviluppa in altezza per altri quattro e mezzo. E’ costruita a mosaico, coordinando settanta tele di cm. 50×60 ciascuna, distribuite su sette file di dieci. Ogni fila è leggermente spostata in avanti rispetto alla sottostante e, su ogni fila, le dieci tele sono disposte a scalare. Ne consegue una disposizione a gradini sfalsati, che crea un piccolo interstizio quadrato, di vuoto, all’incontro di ogni tela con quella che le è sopra, come con quella che le è sotto; lo spostamento degli allineamenti sviluppa complessivamente una forma dall’aspetto di losanga con due lati scivolanti.

Mentre le file orizzontali tendono a slittare verso il basso quasi a suggerire una lenta e inesorabile caduta, le sequenze in verticale registrano, nei loro profili, lo spostamento laterale. Questo doppio movimento imprime all’insieme un accenno di lenta rotazione su se stesso. Sospesa nello spazio come in bilico, la struttura dipana al proprio interno un ritmo continuamente riformatesi, di tempi e movimenti. La dimensione spazio-temporale, come scrive l’artista, si risolve “in un unico vortice, espressione simultanea di passato e presente”.

La superficie chiara e perpendicolare della parete a cui l’opera è agganciata funge da piano neutro e stabile, che consente di percepire l’entità dello sbandamento e, a tratti, lo scivolare verso uno spazio indefinito.

Altri virtuosismi entrano poi nel gioco delle stimolazioni percettive con cui Sanna arricchisce quel senso di animazione di cui la struttura è pervasa.  La trama delle forme squadrate, ordinata secondo un principio geometrico, si scompone per effetto di una luce mutevole e cangiante.

Nella zona superiore e lungo i margini, una luce morbida e calda avvolge i piani facendoli retrocedere in un’ombra profonda; a volte la superficie sembra protendersi, esponendo come a rilievo aguzze lamine abbaglianti. Altre volte, lucenti traiettorie tagliano gli spazi a metà orientandoli in direzioni contrarie.

La struttura è un tessuto vivo e pulsante. La luce è l’elemento primario del codice formale dell’artista, che ne assume la regia dosandone l’intensità: ora concede pause di quiete, ora accelera il ritmo con traiettorie come di impulso elettrico che si scaricano in fulminee esplosioni; ora imprime velocità alla forte tensione che pervade la struttura, ne sconvolge la tettonica con un ritmo singhiozzante e mutevole, o modifica di continuo i percorsi. Luminosità radenti che spiovono dall’alto o che sgusciano guizzanti tra le commessure delle tele, rompono l’ombra che annerisce la trama, liberandone il respiro.

Una zona di particolare eccitazione dinamica attraversa di sghembo la parte inferiore: è una sequenza in rapida successione di “geodi” che si rovesciano verso il basso come in una frenetica corsa. I corpi scheggiati puntano le loro creste acuminate irradiando bagliori; i loro spigoli orientali in ogni direzione variano le ritmiche cadenze.

Nel glossario visionario di Sanna i “geodi” sono figure che l’artista da tempo propone, seppure in infinite varianti.  Sono elementi costitutivi del suo alfabeto figurativo in funzione di una segnaletica formale particolarmente intensa. In questo caso la fascia di “geodi” dai corpi gemmati ribadisce quel senso di caduta che la forma obliqua e periclitante della losanga già annunciava.

Più propriamente il “geode” è l’interprete attivo di una concezione della pittura che tende alla corporeità della scultura, ovvero il luogo nel quale la felice combinazione delle due arti restituisce loro la forza espressiva originaria.

La sfida paradossale di Sanna è quella di raggiungere questo risultato (ovvero dare corpo plastico alla pittura) servendosi non già di innesti di materia, bensì di quell’

elemento apparentemente immateriale ma formante che è la luce. In effetti se guardiamo al suo percorso, scopriamo con quanta ostinazione l’artista si è dedicato a elaborare forme che suggeriscano il peso, il profilo e la qualità plastica della materia, a partire dalle grandi Pietre totemiche.

Dando vita a una personale tendenza minimalista, Sanna opera poi una estrema riduzione del colore. Non solo ha bandito i colori che mimano la natura, ma si è spinto a conservare, del colore, i due soli elementi originari:  l’ombra e la luce, purgando drasticamente le variegate polivalenze del tono. Con una molteplicità di combinazioni dell’ombra e della luce Sanna costruisce il proprio universo. Dai neri profondi e abissali all’oro che diventa raggio mobile di luce.

Vi è nella sua pittura una filosofia della luce, come materia senza corpo che ad ogni cosa dona corpo e colore, materia-antimateria che pervade il tutto, luce come essenza che porta vita, calore e movimento: essenza in ultimo, divina:

Non si tratta in effettti, solo di una scelta formale, bensì dettata da una visione trascendentale e metafisica. E’ l’artista che mima l’atto stesso del creatore, mentre l’arte diventa lo strumento che disvela la vera essenza del mondo. Quella di Sanna, infatti, pur nel suo assetto astratto, non è pittura che non voglia “significare”:  ma in immagini altamente poetiche cerca risposte di segno ontologico alle grandi domande.

Lo stesso titolo, Cosmogonia 2001 conferma il suo orientamento meditativo, rivolto alla ricerca (mistica?) delle origini.

Di fronte a questi fondamentali, la stessa scienza è costretta ad ammettere il proprio fallimento, né potrebbe vantare maggiore attendibilità dell’intuizione artistica. Come ha scritto Nicola Abbagnano pronunciandosi sulle moderne teorie relative all’origine del mondo, si tratta di “postulati non verificabili né falsificabili” che “non possono essere tradotti in enunciati controllabili”. Le loro visioni si basano su idee “non meno metafisiche della incorruttibilità dei cieli di aristotelica memoria.”

Il buio in cui siamo immersi accende dunque legittimamente la fantasia di chi, come Sanna, si ponga dinanzi a temi di tale portata e centralità. Egli cerca di esorcizzare lo sgomento dell’ignoto mettendo in scena un mondo parallelo di forme e immagini irreali che tuttavia nella loro precisione e verità formale diventano concrete come un modello.

 

Augusta Monferini

All’origine (A. Monferini)

(In Sandro Sanna – Roberto Almagno “La luce oscura della materia” – catalogo Primamusa, Museo Carlo Bilotti, Roma 2012).

Alle pendici del Gianicolo, in quella parte di Roma che si appoggia alla sponda destra del Tevere, tra giardini, ville secentesche, antichi conventi e case   popolari, quella parte di città che alle spalle della Farnesina e di Palazzo Corsini ospita famiglie di carcerieri e di carcerati ormai affezionati ad un paesaggio rubato durante gli anni attraverso le sbarre e  diventato parte di se stessi, in questo  angolo magico di città che ricorda le famose vedute dechirichiane di una Roma inventata eppure verissima, all’interno di un giardino nascosto da un muro che sale verso il colle si nasconde lo studio di Sanna. Un luogo appartato, silenzioso, essenziale dove l’artista coltiva la sua immaginazione e ritrova la spinta  per spiccare il volo incontro al suo universo.

Era già da qualche tempo che mancavo dal suo studio- pensatoio e appena messo piede nell’atelier, sin dall’ingresso resto profondamente colpita da una smisurata superficie  quadrata giocata su neri di diversa intensità e su tracce  argentee che guizzano velocissime come improvvisi lampi di luce. La grande tela che occupa per intero la parete di fronte per  chi entra, incombe sull’osservatore sovrastandolo. Per la forte emozione resto muta e a poco a poco ritrovo la mia voce. E’ una struttura elegante e complessa che sembra ruotare lentamente su se stessa. Suggerisce  l’idea di un flusso,  uno scorrere lento con il ritmo cadenzato da un tempo di battuta , come un suono in

sottofondo, come un fruscio  di forme trascinate da una corrente calamitante che inesorabile le muove.  E’ uno spazio imbrigliato in un reticolo di quadrati, forme archetipiche, che assumono posizioni diverse intrecciandosi a una rete di segni luminosi. Le forme si aggregano le une alle altre in un moto continuo e nella loro rotazione assumono posizioni diverse, le più lontane sono neri intensi, se più vicine sono neri opachi e pastosi, quando si rovesciano mostrano il lato o anche solo uno spigolo luminoso, rivolto alla luce.

La poetica di Sanna via via che il tempo passa  e il suo lavoro assume connotati sempre più precisi e puntuali ribadisce una volta di più la finalità  etica e conoscitiva della sua poetica . Sin  dall’origine, come dimostrano i suoi primi lavori, l’artista si pone interrogativi esistenziali e profondi sulla oscura natura delle cose. Il suo rovello è la ricerca, ma non della verità scientifica, bensì  la ricerca di un vocabolario di forme in grado di comunicare questa animazione universale. Le sue austere scenografie riproducono questo lento, inesorabile movimento di piani  che si attraggono, si aggregano, si sfaldano  nello spazio universale .  L’essenza del movimento resta il  leitmotiv della sua metodica ricerca. Negli anni, tutto il suo lavoro mostra una stringente  coerenza. La sua ricerca è dar vita a un glossario di forme che meglio si attagli a questa idea cosmica, a questo misterioso moto nello spazio e nella luce che nel loro alternarsi, configurano uno “spazio pulsante”, (Calvesi), in cui i piani arretrando e avanzando, si sgranano nella loro corsa verso la luce.

Quello di Sanna, come abbiamo già osservato altre volte è un universo di forze magnetiche, un universo percorso da correnti che tracciano scie, vibrazioni   che muovono la materia attraendola e aggregandola in varie forme .

Del resto il magnetismo è stato nella storia dell’umanità uno dei misteri più affascinanti e più indagati. Ne sono stati affascinati i greci e poi i romani quando scoprirono le proprietà di attrazione di alcuni materiali.  Sino alle soglie della scienza moderna questi fenomeni sono stati al centro dell’osservazione e delle indagini  da parte di fisici e scienziati.

Questa realtà enigmatica  ha acceso la fantasia di Sanna che ne ha  dato formulazioni di grande suggestione  poetica e immaginifica. Sin dai primi Geodi degli anni Settanta ai Flussi d’acqua , al polline mosso dal vento cosmico di Bisanzio dove i corpuscoli colpiti dalla luce che inonda l’universo comunicano una animazione colorata e perennemente accesa  come la vita dell’universo, in modi diversi l’artista cerca passo dopo passo risposte formali che diano corpo ai suoi interrogativi esistenziali .

Questa ostinazione a ripercorrere, anche se in modi diversi temi che nella sempre nuova ed estrosa varietà delle singole formulazioni puntano allo stesso nodo centrale, che a noi sembra, con queste ultime prove aver raggiunto la pienezza e la  maturità di uno stile . Una ineguagliabile eleganza, una leggerezza e una tenuta formale davvero degna di nota .

 

 

Augusta Monferini

L’astrazione simulata (M. Meneghuzzo)

(In Sandro Sanna “Universi vibranti”– catalogo Cortina Arte edizioni, Milano 2013).

Un percorso interno all’arte del XX secolo, di portata essenziale, ha condotto il linguaggio dell’arte sulle soglie della vita, obbedendo a quel processo apparentemente irreversibile di svelamento, di negazione di quel mimetismo, di quell’artificio che per molto tempo era stato invece il cuore del linguaggio dell’arte: che la rappresentazione lasciasse il passo alla “presentazione” della realtà era diventata la condizione indispensabile all’artista che volesse davvero incarnare la Modernità attraverso l’avanguardia. In questo senso, la pittura si era trovata davvero a mal partito, ma ne era uscita brillantemente da un lato dichiarando apertamente il suo ricorso al simbolo, dall’altro costruendo letteralmente il linguaggio nuovo dell’astrazione (che non a caso qualcuno avrebbe voluto chiamare “arte concreta”, Konkretekünst, in quanto non derivata da rappresentazione, ma da vera e propria creazione di forme prima non esistenti).

Tuttavia, il trionfo della Modernità – intesa come momento storico ben preciso, e non semplicemente come attualità – ha coinciso con le prime “crepe” nel suo grandioso progetto, messo in discussione proprio a partire dalla stanchezza e da una certa dose di accademismo presente in quelle soluzioni linguistiche, dopo oltre mezzo secolo di presenza esclusiva sulla scena.

Ma a un artista non è dato di scegliere il momento in cui vivere, e forse ancor meno è dato di scegliere le forme del linguaggio in cui intende esprimersi: le sente, e basta. Così, Sandro Sanna si è trovato ad essere artista astratto – perché è indubbio che questa sia la sua prima definizione, quella che si fornisce immediatamente a chi ne volesse sapere di più senza conoscerlo – al “crepuscolo dell’astrazione”, in quel periodo cioè in cui il linguaggio artistico della Modernità, per antonomasia, veniva per così dire “dismesso” di fronte a narrazioni che non ne riconoscevano più il carattere di novità, ma che anzi vedevano in questo il retaggio quasi insopportabile di quella tradizione moderna e modernista, soppiantata dalla leggerezza della postmodernità. Di qui, la difficile collocazione di Sanna all’interno delle nuove categorie espressive, la cui teorizzazione, almeno all’inizio, soffriva di quel manicheismo tipico delle idee rivoluzionarie al momento della loro prima affermazione: le sfumature non contano, la complessità è esautorata, ciò che conta è lo “schieramento” su questo e sull’altro fronte. E il solo fatto di essere astratto collocava Sanna in un campo ben identificato, quello della Modernità declinante. Di questo credo abbia molto sofferto…

Eppure, la pittura di Sanna è tutt’altro che allineata sul quell’ultimo baluardo della “tradizione del nuovo” che sarebbe l’astrazione – anzi, l’astrattismo – fiduciosa di un Malevic, di un Mondrian, di un Albers o, perché no, visto che si tratta di una situazione romana quella in cui matura Sanna dalla natia Sardegna, di un Dorazio: nella sua pittura, più ancora che nella sua scultura, Sanna insinua dubbi anche vigorosi su quella stagione dell’arte, ma cerca nel contempo di preservarne le residue potenzialità, che ovviamente reputa ancora presenti e in attesa di sviluppo. Insomma, gettare l’acqua sporca ma non il bambino.

Le ragioni teoriche e formali su cui agisce in tal senso (e non necessariamente in quest’ordine, dalla teoria alla prassi, ma anche viceversa) riguardano infatti quelli che all’inizio dell’avventura astrattista erano considerati degli “assoluti” incontrovertibili, attaccati i quali sarebbe venuta meno tutta la teoria dell’astrazione, vale a dire quel concetto di dissimulazione della realtà e di costruzione di forme non referentisi se non a se stesse. E’ possibile che l’astrazione rappresenti o, ancor meglio, è possibile rappresentare l’astrazione? Mi pare che Sanna indaghi proprio questo e, a ben vedere, non è il solo a farlo (in certi casi, come questo, è meglio non essere da soli: l’unione fa la forza o, almeno, si fa notare): mi pare ad esempio che anche un artista come Marco Tirelli si trovi sulla stessa lunghezza d’onda, forse non estranea a un dibattito sotterraneo sulla pittura avvenuto, soprattutto attraverso le opere piuttosto che a parole, a Roma nell’ultimo decennio del secolo.

Sanna dunque non ha paura di “rappresentare”, pur da una posizione astratta. Addirittura di “simulare”. Certe sue opere non possono non richiamare se non proprio degli oggetti certo una tridimensionalità mimetica lontanissima da quei “fondamentali” dell’astrazione: in un’intera serie di lavori già degli anni Duemila ci sono vere e proprie “ombre” dipinte, che rendono tridimensionali quei punti che altrimenti sarebbero delle piccole superfici dipinte e “ortodosse”, ma questo livello di voluta simulazione, di rappresentazione dell’astrazione e delle proprie possibili contraddizioni interne si ritrova in tutte le sue opere degli ultimi vent’anni, a cominciare da quelle “pieghe”, da quelle “torsioni”, da quelle “profondità prospettiche” immediatamente precedenti questo ciclo. In quei lavori, argento e oro, è la simulazione della luce a creare l’effetto della piega metallica (a proposito, c’entra qualcosa una certa stagione della pittura di Corrado Cagli?…) o della torsione, mentre è lo scalare delle dimensioni di certi moduli quadrangolari a restituire quell’effetto di profondità che solo fino a qualche decennio fa lo avrebbe fatto espellere dalla categoria degli artisti astratti. In questo suo essere “eretico” rispetto all’ortodossia astratta Sanna non si fa mancare nulla, neppure il virtuosismo del lume, quell’artificio della luce radente che appartiene al bagaglio della tradizione pittorica antica, a sua volta scalzata da un’altra forma espressiva diventata ben presto tradizione anch’essa. A questo punto, forse, Sanna viene “assolto” dalla partecipazione attiva alla difesa della Modernità, e accolto tra le schiere della contemporaneità, per quanto ancora sub iudice, vista la sua tendenza a una trasgressione dolce, troppo dolce a volte per poter essere riconosciuta al primo sguardo.

Ma in fondo, di fronte alle sue opere (a tutte le opere d’arte, per la verità), cosa ce ne importa?